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venerdì 30 giugno 2017

Uzbekistan - Human Right Watch: la Banca mondiale finanzia progetti legati al lavoro forzato e minorile

Riforma.it
La denuncia lanciata da Human Right Watch che ieri ha pubblicato un rapporto nel quale si registrano sistematiche violazioni soprattutto nel settore del cotone.


Le immagini di uomini, donne, bambini africani costretti dai negrieri al lavoro forzato nelle piantagioni di cotone americane sembravano ormai archiviate in un triste e lontano passato. 

Invece nel XXI secolo in Uzbekistan, stato dell’Asia centrale, un numero enorme di persone, a volte bambini fino ai 10/11 anni, sono costretti a lavorare lunghe ore nei campi di cotone in condizioni difficili. Ancor più grave è che tale lavoro forzato e minorile riceva ingenti risorse dalla Banca Mondiale: circa mezzo miliardo di dollari che va a finanziare progetti soprattutto nel settore dell’agricoltura.

È la denuncia lanciata da Human Rights Watch (Hrw) e dal Forum per i diritti umani uzbeco-tedeschi in un rapporto presentato ufficialmente ieri, intitolato «Non possiamo rifiutarci di raccogliere il cotone: il lavoro forzato e minorile legato agli investimenti del Gruppo della Banca Mondiale in Uzbekistan».

Il rapporto di 115 pagine evidenzia nel dettaglio come il governo uzbeko abbia costretto studenti, insegnanti, operatori sanitari, dipendenti del settore privato, e talvolta anche bambini, a raccogliere il cotone nel 2015 e nel 2016, oltre a piantarlo nella primavera del 2016. Il governo avrebbe anche minacciato di dar fuoco alle persone, di interrompere i pagamenti sociali e sospendere o espellere gli studenti qualora si fossero rifiutati di lavorare nei campi di cotone.

«La Banca Mondiale dà copertura all’Uzbekistan per mantenere un sistema di lavoro abusivo nell’industria del cotone», ha dichiarato Umida Niyazova, direttrice del Forum uzbeco-tedesco per i diritti umani. «La Banca Mondiale deve chiarire al governo uzbeco e ai potenziali investitori che non vuole far parte di un sistema che dipende dal lavoro minorile e dal lavoro forzato, sospendendo i finanziamenti fino a quando questi problemi non saranno risolti».

Il rapporto si basa su 257 interviste dettagliate e circa 700 brevi conversazioni con le vittime di lavoro forzato e minorile, agricoltori e attori chiave del sistema del lavoro forzato; su alcuni documenti governativi e su dichiarazioni di funzionari governativi. A partire da queste fonti e documenti, Human Rights Watch e il Forum uzbeco-tedesco sostengono che è altamente probabile che i progetti agricoli e irrigui sostenuti dalla Banca Mondiale, così come gli investimenti nel campo dell’istruzione, siano legati al lavoro forzato e, in alcuni casi, a quello minorile.

L’Uzbekistan è il quinto produttore di cotone più grande al mondo. Esporta circa il 60% del suo cotone grezzo verso la Cina, il Bangladesh, la Turchia e l’Iran. L’industria uzbeca del cotone genera più di 1 miliardo di dollari in fatturato annuo, ovvero circa un quarto del prodotto interno lordo del paese. I ricavi della produzione del cotone vanno in un conto «opaco» extra ministeriale delle Finanze che non è aperto al controllo pubblico ma gestito da funzionari governativi di alto livello.

Gruppi indipendenti, tra cui il Forum uzbeko-tedesco, hanno presentato le prove del lavoro forzato e minorile alla Banca mondiale durante e dopo il raccolto autunnale 2015, nonché prove sulle violenze, intimidazioni, detenzioni arbitrarie subite da attivisti indipendenti e giornalisti impegnati in attività di monitoraggio dei diritti umani e dei diritti del lavoro nel 2015 e nel 2016.

Invece di sospendere il prestito al governo uzbeco, in linea con gli accordi del 2014, la Banca mondiale ha aumentato i propri investimenti nell’industria agricola dell’Uzbekistan attraverso il suo settore di prestito privato, la IFC (International Finance Corporation).

Finora un totale di 274 aziende si sono impegnate a non acquistare cotone dall’Uzbekistan a causa dell’utilizzo del lavoro forzato e minorile nel settore, ma c’è ancora molta strada da fare.

Human Rights Watch e il Forum uzbeko-tedesco chiedono alla Banca Mondiale e all’IFC di sospendere il finanziamento nei settori dell’agricoltura e dell’irrigazione in Uzbekistan finché non sia provata l’assenza di utilizzo di lavoro forzato e minorile; di adottare tutte le misure necessarie per prevenire le repressioni contro i difensori dei diritti umani; infine, di rispondere rapidamente qualora si dovessero verificare degli abusi.

«La missione della Banca Mondiale è combattere la povertà, ma le persone che vivono in condizioni di povertà sono le più esposte al lavoro forzato e minorile in Uzbekistan», ha dichiarato Jessica Evans, ricercatrice senior dei diritti umani per Human Rights Watch e coautrice del rapporto. «La Banca Mondiale dovrebbe smettere di finanziare progetti che rafforzano il sistema di lavoro forzato del Paese, favorendo invece le iniziative che rispondono alle esigenze sociali ed economiche delle persone che vivono in povertà».

Nigeria - Amnesty - Shell accusata di complicità per esecuzione di prigionieri politici

Askanews
Amnesty International ha sempre considerato Ken Saro-Wiwa e Barinem Kiobel prigionieri di coscienza, arrestati e poi uccisi a causa delle loro idee pacifiche. 



Almeno due testimoni dell'accusa dichiararono di essere stati pagati per incriminare gli imputati, che la corruzione era avvenuta alla presenza di un legale della Shell e che la compagnia petrolifera aveva loro offerto un lavoro. La Shell ha sempre smentito queste circostanze.
Molti degli Ogoni arrestati per il sospetto di aver preso parte all'uccisione dei quattro capi furono sottoposti a maltrattamenti e torture durante la detenzione. Persino dopo l'apertura del processo, il comandante militare responsabile della loro prigionia si limitò a consentire colloqui tra i detenuti e i loro avvocati solo previo assenso e con la sua presenza. I parenti denunciarono di aver subito aggressioni da parte dei soldati nel tentativo d'incontrare i detenuti.
Esther Kiobel ha denunciato che in occasione di una visita al marito venne aggredita da un comandante militare e trascorse due settimane in cella. Tra il 30 e il 31 ottobre 1995 i nove ogoni vennero giudicati colpevoli e condannati a morte. 

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani dichiararono che si era trattato di un processo politico e di parte. Un penalista britannico che assistette al processo disse: "Il tribunale prima ha deciso il verdetto e poi ha cercato qualche argomento per giustificarlo".
Il 10 novembre i nove prigionieri vennero impiccati e i loro corpi vennero gettati in una fossa comune. "Esther Kiobel ha vissuto nell'ombra di questa ingiustizia per oltre 20 anni ma si è sempre opposta ai tentativi della Shell di zittirla. Oggi la sua voce si eleva a nome di così tante altre persone le cui vite sono state devastate dall'industria del petrolio in Nigeria", ha dichiarato Channa Samkalden, avvocata di Esther Kiobel. 

"La posta in gioco non potrebbe essere più alta. Questo caso giudiziario potrebbe porre fine a decenni d'impunità della Shell, in cui nome è diventato sinonimo di come le grandi compagnie possano violare i diritti umani senza timore di subire ripercussioni", ha proseguito Samkalden.

India, la protesta delle donne con la maschera da mucca

Corriere della Sera
In India può capitare di vedere in giro donne che indossano una maschera da mucca. A lanciare l’idea, che ha fatto il giro del Paese scatenando le ire dei nazionalisti, è stato un giovane fotografo di 23 anni Sujatro Ghosh:
“Mi inquieta il fatto che nel mio Paese le mucche siano considerate più importanti di una donna, ci vuole di più a una vittima di stupro ad ottenere giustizia che a una mucca visto che molti indù la considerano un animale sacro” 
ha detto Ghosh alla Bbc che ha deciso di raccontare la sua storia.


In India viene denunciato uno stupro ogni 15 minuti e ci sono stati fatti di cronaca che hanno indignato il mondo come quello di NIrbahaya, la giovane di 21 anni violentata e uccisa su un bus a New Delhi nel 2012. Uno dei suoi stupratori è uscito dal carcere pochi mesi fa.

“Ci vogliono anni perché si svolga un processo per femminicidio e il colpevole sia punito – dice Ghosh – mentre se una mucca viene assassinata i gruppi estremisti indù uccidono o picchiano a sangue chiunque sia sospettato”.

Il progetto di Ghosh è una forma di protesta contro questa ingiustizia e anche un monito a guardarsi dalla crescita dei vigilantes indù che hanno preso sempre più piede dopo la vittoria, tre anni fa, del Bharatiya Janata Party, guidato dal primo ministro Narendra Modi. 

L’idea gli è venuta circa un mese fa quando ha cominciato a scattare fotografie ogni giorno di donne con indosso la maschera da mucca davanti alle loro case, su una barca, su un treno perché “sono vulnerabili ovunque in questo Paese”.

Quando ha pubblicato il progetto su Instagram, due settimane fa, il successo è stato subito enorme. Ma la reazione dei nazionalisti non ha tardato ad arrivare. Alcune persone hanno addirittura chiamato la polizia asserendo che il fotografo stava fomentando la folla e chiedendone l’arresto.

“Su Internet hanno minacciato me e le mie modelle. Hanno detto che avrebbero dovuto ucciderci e dare la nostra carne in pasto a una giornalista e a una scrittrice disprezzate dai nazionalisti”.


Monica Ricci Sargentini

giovedì 29 giugno 2017

La poesia della giovane pakistana: ''Se devo dimostrare la mia umanità, non sono io quella disumana''

La Repubblica
''Se devo dimostrare la mia umanità, non sono io quella disumana''. Suhaiymah Manzoor-Khan, scrittrice, ha partecipato al concorso letterario Poetry Slam organizzato dall'associazione di beneficenza londinese Rundhouse, arrivando al secondo posto. 



Ma la sua performance, dai toni coraggiosi, ha conquistato letteralmente la rete: la poesia recitata dalla 22enne di origini pachistane è diventata virale in poche ore. Residente a Bradford, Suhaiymah Manzoor-Khan rappresenta la ''terza generazione''. Laureata all'Università di Cambridge, nel suo blog ''The Brown Hijab'' racconta di politica, attualità, questioni di genere, femminismo e islam. 

Libia - Il 'pescatore' di migranti: unico gesto di pietà per i disperati che annegano

Globalist
Un operatore della mezzaluna rossa in Libia che cerca, pietosamente, di recuperare i resti dei morti portati a riva dalle correnti



Da un lato la burocrazia: la Commissione europea, per la prima volta a Bruxelles, ha preso esplicitamente in conto la possibilità di portare anche in altri Paesi, e non necessariamente e solo in Italia, i migranti soccorsi dalle imbarcazioni delle Ong in acque internazionali. 

E' il concetto della "regionalizzazione" delle attività di ricerca e salvataggio, perorato da tempo dalle autorità italiane, e ripreso (ma genericamente, senza entrare nei dettagli) nelle conclusioni dell'ultimo Consiglio europeo venerdì scorso.

Dall'altro lato le tragedie di ogni giorno, spesso ignorate.
Così nelle coste libiche ci sono operatori della mezzaluna rossa che raccolgono i corpi degli annegati riportati a riva dalla corrente. Unico gesto di pieta per persone disperate, spesso derubate e maltrattate dai mercanti di carne umana imbarcate per un viaggio senza ritorno.

Riconquistata a Mosul la moschea simbolo Al Nuri. "L'Isis è crollato"

Rai News 24
Il premier iracheno Al Abadi: "l'Isis è finito dopo la riconquista del sito dove Al Baghdadi 3 anni fa proclamò la rinascita del califfato."



L'esercito iracheno ha annunciato la riconquista della grande moschea di al Nuri - o meglio delle sue rovine - nella città vecchia di Mosul. E' una conquista dal grande valore simbolico perché in questa moschea, la più nota della seconda città dell'Iraq, Abu Bakr al Baghdadi annunciò proprio il 29 giugno di tre anni fa la nascita del califfato. 

Il luogo sacro è ridotto a un cumulo di macerie: il 21 giugno fonti militari irachene hanno affermato che i miliziani jihadisti avevano distrutto la moschea e il suo minareto pendente, mentre l'isis poco dopo ne dava la responsabilità a un raid aereo della coalizione internazionale a guida Usa. 

Ancora sacche di resistenza dei jihadisti Mosul è stata la capitale de facto in Iraq del gruppo jihadista. Le forze governative irachene stanno avanzando faticosamente edificio dopo edificio nella città vecchia, dove sono ancora trincerati alcune centinaia di jihadisti. 

Le forze congiunte, formate da esercito e corpi di polizia, hanno dichiarato ieri di controllare il 50% della città vecchia e che nelle mani dell'Isis resta soltanto una zona larga 850 metri e lunga 1.700. 

Il premier Abadi: finito il falso Stato di Daesh La riconquista della moschea di Mosul segna la "fine" del falso Stato dei jihadisti. Lo scrive su Twitter il primo ministro iracheno, Haider al Abadi. "Stiamo assistendo alla fine del falso Stato del Daesh", afferma Abadi. "Continueremo a combattere finché l'ultimo miliziano verrà ucciso o portato davanti alla giustizia". -

Neonati fucilati, donne sventrate, seminari distrutti. Cosa sta succedendo in Congo

Tempi
Hanno preso e massacrato l’intera popolazione del remoto villaggio di Cinq. Hanno ucciso donne, bambini e neonati con armi da fuoco, machete, perfino bruciandoli vivi. Hanno distrutto tutte le case e fatto irruzione in una clinica, sterminando medici e pazienti insieme.




I crimini contro l’umanità di cui si sono macchiati il 24 aprile i miliziani di Bana Mura, in un contesto in cui è perfino difficile capire chi sono e per che cosa combattono, sono l’emblema della Repubblica democratica del Congo (RDC), un paese «sull’orlo della catastrofe» che sta per implodere a causa di gravissimi problemi politici, economici, etnici e sociali.

OLTRE 3.300 MORTI. Dall’ottobre del 2016 sono già morte più di 3.300 persone nella regione del Grande Kasai (che comprende tre province nel centro del paese) a causa degli scontri tra l’esercito congolese e i ribelli di Kamwina Nsapu. Il gruppo si sarebbe rivoltato già nel 2011, dopo il rifiuto da parte del governo di riconoscere l’autorità di Jean Pierre Mpandi, nuovo capo di un clan locale. Si pensa che il rifiuto sia stato dettato dalla mancata iscrizione di Mpandi al partito di governo. Quando nell’agosto del 2016 Mpandi è stato ucciso dalla polizia, le violenze sono deflagrate diffondendosi in modo incontrollato.

NEONATI FUCILATI. Secondo un rapporto diffuso settimana scorsa dalla Nunziatura apostolica a Kinshasa, capitale della RDC, migliaia di morti sono stati trovati in 42 fosse comuni, 20 villaggi completamente distrutti (almeno 10 dall’esercito) e tra le rovine di quasi 4 mila case rase al suolo. Le violenze confermate dall’Onu sono raccapriccianti: si parla di bambini di due anni a cui sono stati amputati gli arti con machete, neonati fucilati, donne incinte sventrate a metà con armi da taglio. Molti di questi crimini sono stati appunto commessi da Bana Mura, milizia che secondo l’Onu si è costituta da poco per combattere i ribelli di Kamwina Nsapu ed è armata e finanziata dall’esercito regolare congolese.

GLI SCONTRI SI ESTENDONO. A causa delle violenze 1,3 milioni di persone sono fuggite dal Grande Kasai e circa 400 mila bambini sono a rischio malnutrizione. Cattive notizie arrivano anche da Beni, nella provincia del Nord Kivu (est del paese) dove gruppi ribelli, spesso stranieri, interessati alle enormi risorse del paese (abbondano oro, legname, coltan, cassiterite) stanno approfittando del caos generale per conquistare terreno.

ATTACCO ALLA CHIESA CATTOLICA. Anche la Chiesa cattolica ha subito danni ingenti nella regione: quattro circoscrizioni ecclesiastiche sono state colpite, altre due diocesi marginalmente coinvolte, due vescovi sono stati costretti all’esilio dopo la distruzione delle sedi episcopali, 60 le parrocchie chiuse o danneggiate, 34 le case religiose chiuse o distrutte, 141 le scuole danneggiate, 31 le cliniche colpite, cinque i seminari abbandonati.
Se la Chiesa cattolica è stata colpita così duramente non è un caso, visto il ruolo che sta faticosamente svolgendo per risolvere la crisi politica che da anni destabilizza il paese e che è alla radice anche delle violenze dell’ultimo anno. La RDC infatti è dominata dalla famiglia Kabila fin dal 1997, quando Laurent Kabila è riuscito con un colpo di Stato a deporre il dittatore Mobutu Sese Seko. Assassinato nel 2001, a Laurent è succeduto il figlio Joseph Kabila, che governa da allora violando il limite massimo di mandati imposto dalla Costituzione.

ACCORDO DI SAN SILVESTRO. L’anno scorso Kabila ha accettato di abbandonare il potere e le elezioni erano inizialmente previste per novembre. Alla vigilia del voto, però, la commissione elettorale ha dichiarato di non potere indire le elezioni perché «il numero dei votanti è sconosciuto». Sono seguite violente proteste di piazza, che l’esercito ha cercato di spegnere facendo decine di morti, sedate infine grazie all’intervento dei vescovi che hanno supervisionato la firma tra governo e opposizione dell’Accordo di San Silvestro: il testo, siglato il 31 dicembre 2016, prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale per portare il paese a votare entro la fine del 2017. A maggio però l’accordo ha subito un duro colpo: Kabila ha formato sì un governo, ma solo con una parte dell’opposizione, e a sei mesi dalla fine dell’anno non ha ancora fissato la data ufficiale delle elezioni generali.

EVASIONI DI MASSA. L’instabilità ha minato l’autorità e la funzionalità del governo. Non è un caso se a maggio sono riusciti a scappare da un carcere della capitale 4.000 detenuti, tra banditi e miliziani, la più grande fuga nella storia del paese. Due giorni dopo, altri 70 hanno infranto le sbarre di una seconda prigione. Sulle strade mal ridotte del paese si moltiplicano i posti di blocco illegali che costringono le auto a pagare pedaggi illegittimi nella più totale impunità. i principali dicasteri mancano di fondi e lo stato della corruzione già dilagante si è ulteriormente aggravato.

EVITARE LA GUERRA CIVILE. In questa situazione esplosiva, il popolo congolese ha preso una posizione chiara: secondo un recente sondaggio, l’83% vuole votare entro fine anno ma il timore è che il presidente Kabila stia fomentando gli scontri per rimanere al potere. «Gruppi stranieri stanno operando nel nostro paese», è la denuncia pubblicata dai vescovi lunedì al termine di un’Assemblea penaria. «I politici moltiplicano le iniziative per svuotare l’Accordo del suo contenuto, minando così la tenuta di elezioni libere, democratiche e pacifiche. Le recenti evasioni di massa restano tuttora dei grandi punti interrogativi», scrivono facendo intendere che potrebbe trattarsi di un piano funzionale a gettare nel caos il paese. Il 30 giugno la RDC festeggia l’anniversario dell’indipendenza nazionale e la Chiesa ha invitato fedeli e uomini di buona volontà «a una giornata di digiuno e preghiera per la nazione», per evitare che sprofondi in una nuova guerra civile.

Leone Grotti


mercoledì 28 giugno 2017

Rom a Roma: «Nei campi manca acqua ed è pieno di topi»

Cinque Quotidiano
E’ una coraggiosa donna di etnia Rom, nata in Bosnia, figlia di un partigiano, a denunciare Roma Capitale ed il Sindaco Virginia Raggi dalle telecamere di Quinta Colonna, trasmissione condotta da Paolo del Debbio su Rete 4.


Sabaheta Hamidovic, madre e cittadina reclusa nel campo di Castel Romano, sulla Pontina: “Non abbiamo l’acqua da 30 giorni ed e’ pieno di topi, i nostri bambini possono morire”. Ecco l’essenza del Piano Raggi riservato ai Rom, Sinti e Caminanti di Roma Capitale, ecco come vengono gestiti i 3.8 milioni di euro ricevuti dall’Unione Europea per promuovere inclusione sociale e politiche per accesso alla casa ed al lavoro. 

Stamani, Marcello Zuinisi, legale rappresentante dell’Associazione Nazione Rom si e’ rivolto nuovamente ad Anac Autorita’ Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone chiedendo il suo intervento su Governo Nazionale e Governo Capitolino.

Questo il passaggio fondamentale della lettera protocollata alle istituzioni: “al fine di salvaguardare la sicurezza e la vita degli abitanti del Campo di Castel Romano, nel rispetto delle normative sull’igene, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, della Costituzione Italiana, tenendo conto che il Governo Italiano, il Ministero del Lavoro, l’Agenzia di Coesione Territoriale, le Regioni e le Citta’ Metropolitane hanno ricevuto, tramite i programmi Pon Inclusione 2014 – 2020 (1.250.000.000 euro) e del Pon Metro 2014 – 2020 (894.000.000 euro) la cifra economica complessiva di 2.146.000.000 di euro, con la presente si chiede intervento urgente ed immediato di Roma capitale al fine di ripristinare fornitura idrica e derattizzazione degli ambienti del campo di Castel Romano”. 

In Italia ed a Roma “mafia capitale” non e’ mai finita. La richiesta di intervento dell’Autorita’ Nazionale Anticorruzione sul Governo Nazionale e sul Governo Capitolino e’ stata richiesta ufficialmente in data 8 giugno 2017, direttamente alle porte di ingresso del Magistrato Raffaele Cantone. La legge, e’ scritto nei tribunale, e’ uguale per tutti, senza distinzioni di sesso, etnia, religione ed opinioni politiche. Cosi’ in un comunicato l’Associazione Nazione Rom.

Iraq. Nelle carceri languono duemila bambini soldato addestrati dall’Isis

Tempi
Lo Stato islamico li ha addestrati a diventare spie, costruttori di bombe e assassini. Servirebbero programmi di riabilitazione, ma ci sono molte difficoltà


Tra le fila dello Stato islamico è schierato anche un nutrito esercito di bambini soldato. L’Economist riporta che l’Isis in Iraq e Siria ha reclutato migliaia di ragazzi, strappandoli dagli orfanotrofi o rapendoli. Altre volte invece sono gli stessi genitori a consegnare i propri figli nelle mani dei jihadisti, perché entusiasti del Califfato o per ottenere in cambio cibo, gas da cucina e uno stipendio mensile di 200 dollari.

ADDESTRATI A UCCIDERE. Alcuni giovanissimi vengono convinti dai compagni di scuola, altri sono sedotti dalla promessa di avventure, denaro o dalla prospettiva del potere. Questi bambini vengono addestrati come spie, imparano a preparare bombe, cucinare per l’esercito o sorvegliare i prigionieri. In casi estremi, sono proprio loro ad uccidere i prigionieri, decapitandoli o usando armi da fuoco. Diversi filmati diffusi dallo Stato islamico lo dimostrano: nel luglio 2015 un video mostrava un ragazzino che decapitava un pilota delle forze aeree siriane; all’inizio del 2016 un bambino britannico di quattro anni, portato in Siria dalla madre, è stato filmato mentre premeva il pulsante per far saltare in aria un’auto con tre prigionieri all’interno; in un altro ancora, dei ragazzi correvano attraverso delle rovine facendo a gara a chi riuscisse ad uccidere più prigionieri. Ci sono poi diverse foto di ragazzini che stringono tra le mani teste mozzate, con accanto i loro padri pieni di orgoglio. Come fa notare l’Economist, non è la «creatività della violenza» la novità (in molte altri parti del mondo i bambini soldato compiono atti atroci), quanto la diligenza nel documentare e diffondere questa violenza.

MANDATI AL MACELLO. Nella sua propaganda, l’Isis dipinge i bambini come il futuro del Califfato, le risorse che consentiranno la sopravvivenza del gruppo, tant’è che i jihadisti hanno costruito specifiche scuole dove impartire l’ideologia islamista. In realtà, riferisce la rivista inglese, lo Stato islamico sta mandando a morire i suoi bambini soldato in numero sempre più consistente da quando ha cominciato a perdere terreno in Siria e Iraq (a gennaio, per esempio, 51 bambini si sono fatti saltare in aria a Mosul).
Anche i servizi di intelligence europei sono preoccupati da questo fenomeno che costituisce una vera e propria minaccia per la sicurezza: i bambini addestrati a costruire bombe e indottrinati nell’odio verso l’Occidente possono più facilmente passare i confini ed eludere i controlli. In Iraq il governo è mal equipaggiato per smobilitare migliaia di bambini soldato, mentre nel caos siriano i “cuccioli del Califfato” costituiscono facili reclute.

DUEMILA BAMBINI. Il problema, scrive l’Economist, è decidere come fronteggiare questo pericolo. Nelle carceri irachene sono rinchiusi circa 2 mila bambini accusati di avere lavorato per l’Isis, ma questi centri di detenzione non sono attrezzati per riabilitare i giovani radicalizzati, non forniscono un’assistenza specializzata e, stando alle testimonianze, impartiscono torture e abusi. Il risultato è che i ragazzi rischiano di uscire dal carcere ancora più soli e rancorosi nei confronti dello Stato. L’opzione migliore sarebbe dunque quella di introdurre questi bambini in programmi di riabilitazione per insegnare loro un lavoro e reintrodurli nel tessuto sociale. Tuttavia, anche così ci sarebbero diverse difficoltà.

RIEDUCAZIONE DIFFICILE. Innanzitutto, molti membri della società li disprezzano perché li vedono come assassini che hanno contribuito a distruggere il paese. Molti ragazzi potrebbero rifiutare l’aiuto per paura di essere arrestati dalle forze di sicurezza irachene o uccisi dall’Isis con l’accusa di tradimento. Neanche le famiglie sembrano essere d’aiuto nella transizione di questi bambini alla vita civile, come avvenuto in altri paesi, perché in molti casi sono proprio i genitori a spingere i figli tra le schiere dell’Isis. Anche se cominciano a sorgere scuole nelle aree precedentemente occupate dall’Isis per recuperarli, non è facile trovare insegnanti qualificati in grado di gestire problematiche complesse come la radicalizzazione e il trauma psicologico. Bisogna inoltre considerare l’elevato livello di disoccupazione giovanile, la crisi economica del paese e la diffusa corruzione che renderanno difficile creare nuovi posti di lavoro.

martedì 27 giugno 2017

Migranti, non si può “morire di speranza”

Blog Huffington Post
Ricordare, prima di tutto, le troppe vittime dei viaggi in mare


Non ci si ferma mai. Neanche di fronte a chi muore. Nel tritacarne mediatico del botta e risposta sull'immigrazione, quasi sempre politico e strumentale, non si ha un attimo di tempo per fermarsi e riflettere, considerare che si tratta di persone: uomini, donne, bambini, famiglie, storie. 

Tanti che rischiano ogni giorno la loro vita pur di arrivare. E troppi che la perdono nel Mediterraneo, tragico Mare Nostrum. Dall'inizio dell'anno oltre 2.000 le vittime, uno ogni 35 che riesce a salvarsi, percentuale da brivido e in aumento rispetto al 2016.
Non si può "morire di speranza". Lo si è detto e ripetuto a Santa Maria in Trastevere in una veglia promossa dalla Comunità di Sant'Egidio insieme a tante altre associazioni (Centro Astalli, Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Federazione Chiese Evangeliche in Italia, Acli, Casa Scalabrini 634, Associazione Papa Giovanni XXIII). Abbiamo chiesto a tutti di fermarsi, come primo gesto, fondamentale, di umanità e rispetto. Di pietà che diventa protesta, silenziosa e composta. Fa più clamore di un grido. Guardiamo le immagini e fermiamoci tutti, almeno per un attimo.

Nella basilica, affollata, lo hanno fatto in tanti: italiani insieme a centinaia di immigrati, tra cui alcuni sopravvissuti ai terribili viaggi per giungere in Europa, familiari e amici di chi ha perso la vita insieme a chi, invece, è arrivato in sicurezza con i corridoi umanitari. Durante la veglia sono stati letti alcuni nomi di chi è scomparso e sono state accese altrettante candele.

"Morire di speranza" si svolgerà nei prossimi giorni anche in altre città italiane ed europee. Per invitare altri a fermarsi, per ricordare che il salvataggio in mare è un obbligo morale. Prima di tutto. Su questo non si può discutere. E poi che occorre accogliere, ma soprattutto integrare. Se non si vuole restare schiacciati sul presente, quello del botta e risposta politico e mediatico, ma si vuole guardare al futuro dell'Europa e dell'Italia.
Roberto Zuccolini

Non se ne parla! Yemen - 200mila casi di colera, inarrestabile l'epidemia.

UNICEF
Appello del 25 giugno 2017 - Nello Yemen l’epidemia di colera si sta diffondendo rapidamente: oltre 200.000 i casi sospetti, una media di 5.000 al giorno.


Quella cui ci troviamo di fronte è la peggiore epidemia di colera al mondo. In soli due mesi, l'infezione si è diffusa in quasi tutti i governatorati del paese, devastato dalla guerra. Contiamo già oltre 1.300 vittime, un quarto delle quali bambini, e il bilancio è destinato a peggiorare.


UNICEF, Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e organizzazioni partner sono impegnate 24 ore su 24 per frenare questa letale epidemia, monitorandone la diffusione e raggiungendo le comunità locali con acqua potabile, medicine e misure per l'igiene.

Le nostre squadre di intervento rapido si recano di casa in casa per fornire alle famiglie informazioni su come proteggersi dal contagio.

L'UNICEF e l'OMS stanno prendendo tutte le misure per aumentare gli interventi di prevenzione e di cura della malattia, mentre invitiamo le autorità yemenite ad intensificare gli sforzi per impedire che l'epidemia si diffonda ulteriormente.

L'epidemia di colera è la conseguenza diretta di due anni di un sanguinoso conflitto interno.

Il collasso dei sistemi idrici e igienici ha privato 14,5 milioni di abitanti dall'accesso quotidiano all'acqua potabile e a servizi igienici adeguati, favorendo così la diffusione dei vettori dell'infezione.

L'aumento nei tassi di malnutrizione ha indebolito la salute dei bambini e li ha resi più vulnerabili alla malattia.

Circa 30.000 operatori sanitari locali, figure chiave nella lotta all'epidemia, non ricevono un salario ormai da 10 mesi.

Chiediamo al governo yemenita di retribuire immediatamente questi operatori e soprattutto invitiamo tutte le parti a porre fine a questo devastante conflitto.

Colombia - FARC, completata la consegna degli armamenti all’Onu: «Ora un partito politico»

Corriere della Sera
Le Forze Armate Rivoluzionarie hanno concluso la riconsegna delle armi all’Onu come stabilito dall’accordo siglato il 26 settembre scorso che sancisce l’addio dei guerriglieri alla lotta armata e la graduale trasformazione del movimento in un partito politico.

Un giorno storico per la Colombia. Dopo più di 50 anni, le Farc hanno concluso la riconsegna delle armi alle Nazioni Unite, come previsto dalla firma degli accordi di pace fra i guerriglieri e il governo del Presidente Juan Manuel Santos. 

Con un giorno di anticipo, le Forze Armate Rivoluzionarie hanno letteralmente chiuso le 7.132 armi in loro possesso in contenitori dell’Onu dove verranno tenute con tutte le misure di sicurezza.

La conferma arriva da una nota delle Nazioni Unite che spiegano di aver ricevuto le armi appartenute ai guerriglieri delle Forze Armate Rivoluzionarie. Solo una piccola parte di quelle armi è rimasta nelle mani delle Farc: serviranno per garantire protezione a quei 26 villaggi rurali dove si trovano i circa 7.000 guerriglieri che stanno affrontando il passaggio alla vita civile. 

Un rapporto consegnato, appunto, con 24 ore di anticipo rispetto alla cerimonia ufficiale (prevista per martedì nel comune di Mesetas in Colombia meridionale alla presenza del presidente Juan Manuel Santos e del comandante del gruppo Insurgente, Timoleón Jiménez) in cui le Farc ‘certificheranno’ il loro addio alla lotta armata per trasformare il movimento in un partito politico.

In oltre 50 anni di conflitto interno, il più lungo dell’America Latina, sono morte più di 200.000 persone (l’80 per cento civili) e ci sono stati otto milioni di sfollati. La riforma firmata nel 2016 prevede - oltre al disarmo - una riforma agraria e la partecipazione degli ex ribelli alla vita politica, ma «senza rappresaglia», la fine della produzione di coca e una transizione giudiziaria che si affianca al reinserimento degli ex ribelli nella vita civile del Paese. Un processo di pace delicato, durato quattro anni per cui il presidente Juan Manuel Santos ha lavorato a lungo e per cui ha ottenuto nel 2016 il premio Nobel per la Pace.

lunedì 26 giugno 2017

"Torturati e marchiati come animali", il racconto shock dei baby migranti

La Repubblica
Salvati due giorni fa dalla nave Aquarius di Msf, sono approdati ieri pomeriggio a Pozzallo. Sul corpo e nelle loro parole le tracce di una lunga Odissea: gli spari, la prigionia, le uccisioni a sangue freddo
Il ragazzo ha 16 anni. A giudicare dalla statura dovrebbe pesare più di 70 chili, ma ne pesa appena 42. Per tre volte è salito su un gommone su una spiaggia libica e per tre volte lo hanno riportato indietro. Picchiato, rinchiuso in cella, letteralmente affamato dagli scafisti, terrorizzato per aver visto uccidere a sangue freddo con una colpo di pistola alla testa un migrante incaricato di condurre il gommone colpevole di aver sbagliato la rotta.

Ieri, che finalmente è riuscito a farcela, dal telefono di Craig Spencer, medico di bordo della nave Aquarius di Msf approdata nel pomeriggio a Pozzallo, il giovane gambiano, uno delle decine di minori non accompagnati soccorsi in queste ultime 48 ore nel Mediterraneo, ha potuto chiamare i suoi genitori rimasti a casa e, tra le lacrime, rassicurarli.

"La telefonata - ci dice Craig Spencer - è arrivata proprio a conclusione del Ramadan, un periodo in cui i familiari di questo ragazzo non avevano fatto altro che pregare per lui senza sapere nulla della sua odissea".

La sua storia e quella di altri 12 giovanissimi del Bangladesh, giunti anche loro a Pozzallo sulla Aquarius, arrivano emblematiche nella giornata internazionale di supporto alle vittime di torture. "Ho visto alcuni di loro - dice il medico - marchiati a fuoco sulla pelle come animali. Un ragazzino di 15 anni mi ha raccontato che in 11 sono stati segregati e torturati per giorni dopo che uno di loro era riuscito a fuggire. Un modo per far capire loro cosa li aspettava se non avessero ubbidito agli ordini".

Terribile il racconto del 16enne gambiano che ha ricostruito al medico di Msf il suo viaggio lungo sette mesi, dal Gambia al Senegal, alla Nigeria fino alla Libia. Da lì il primo tentativo di imbarcarsi su un gommone fatiscente dopo aver pagato un trafficante. L'imbarcazione viene intercettata a poche miglia dalla partenza da una motovedetta libica e costretta a tornare indietro, i migranti finiscono in prigione senza cibo. Lì comincia il deperimento del ragazzino che, facendosi mandare da casa altri 500 euro, riesce a farsi liberare e a salire su un altro gommone.

Questa volta la barca viene attaccata da altri trafficanti che sparano e lo fanno affondare. I migranti vengono soccorsi e riportati di nuovo in Libia e nuovamente imprigionati. La terza volta il sedicenne viene messo su un gommone affidato ad un altro migrante come sempre più spesso accade. L'uomo non è in grado di seguire la rotta che gli viene data e ritorna verso la spiaggia dove viene ucciso con un colpo di pistola alla testa.

Due giorni fa, finalmente, il viaggio andato a buon fine con il salvataggio dei migranti da parte della nave Aquarius di Msf.

di ALESSANDRA ZINITI

domenica 25 giugno 2017

Sant’Egidio a Washington: rafforzare impegno contro pena di morte

Radio Vaticana
“No Justice without Life”, “Nessuna giustizia senza vita”. E’ il tema della conferenza in corso a Washington promossa dalla Comunità di Sant’Egidio e da un folto numero di organizzazioni cattoliche statunitensi e non solo impegnate contro la pena di morte. 

Sull’importanza di questo evento, Alessandro Gisotti ha intervistato Carlo Santoro, coordinatore di Sant’Egidio contro la pena di morte, raggiunto telefonicamente nella capitale statunitense:

R. - Nell’ambito dell’assemblea generale di questa associazione che è la World coalition to abolish death penalty che raccoglie 150 associazioni del mondo noi, insieme alla Chiesa cattolica statunitense, abbiamo organizzato questo evento a cui hanno partecipato anche diversi familiari delle vittime.

D. - Quali sono le indicazioni che sono emerse da questa riunione che ovviamente guarda agli Stati Uniti ma non solo?

R. - Ci sono state voci, ad esempio dall’India, ma anche dalla Nigeria… Le indicazioni sono forti. Io penso che noi dobbiamo tutti lavorare molto più insieme e in connessione tra di noi e questo mi sembra molto importante perché ci sono grosse spinte in diversi Stati verso l’uso della pena di morte con la scusa del terrorismo, chiaramente. Però, spesso, scopriamo in molti Paesi che a essere messi a morte in genere si tratta, per esempio, di stranieri. In Paesi come l’Arabia Saudita quasi la metà dei condannati a morte sono in realtà o filippini o nigeriani. Questo perché la pena di morte continua a essere uno strumento politico di repressione ma che spesso anche negli Stati Uniti colpisce le fasce più povere della popolazione. In genere in alcuni Stati, per esempio, in Florida o nel Texas le condanne a morte si concentrano in alcune aree dello Stato. Questo è un fatto significativo non perché ci siano lì dei tassi di delinquenza molto più alti che nel resto dello Stato ma perché è un problema politico e anche di fasce molto povere della popolazione.

D. - C’è un rinnovato appello a rafforzare il movimento contro la pena di morte. In questa battaglia si sente ovviamente l’incoraggiamento e il sostegno di Papa Francesco…

R. - Assolutamente sì. C’è stato chiesto aiuto da parte di Catholic Mobilizing Network, un’associazione che di fatto si rifa alla Conferenza episcopale americana. Noi vogliamo rilanciare il loro appello, venire incontro a questa loro richiesta per rilanciare questo impegno che parte proprio dalle parole del Papa il quale in diverse occasioni ha invitato ad aiutare l’abolizione della pena di morte ma che anche ha detto: “Non solo siamo chiamati come cristiani a combattere per abolire la pena di morte, legale o illegale, ma anche a migliorare le condizioni di vita in carcere”. Questo per noi di Sant’Egidio è molto importante perché ovunque lavoriamo nel mondo siamo a contatto con la realtà del carcere stiamo iniziando una grossa battaglia per umanizzare le carceri a partire da quelle in Africa ma anche a partire dalle nostre, in Italia.

Allarme dell'Unicef in Africa: 5,6 milioni di bimbi senz'acqua rischiamo malattie

Globalist
Le epidemie in Camerun, Ciad, Niger e Nigeria coincidono con la sempre più diffusa insicurezza a livello regionale e l'aumento dei movimenti di popolazione.


Oltre 5,6 milioni di bambini sono sempre più esposti a rischio di contrarre malattie legate all'acqua, come colera e infezioni diarroiche, considerato l'inizio della stagione delle piogge nelle aree colpite dal conflitto nei Paesi attorno al Lago Ciad.


Lo denuncia l'Unicef precisando che la minaccia di epidemie in Camerun, Ciad, Niger e Nigeria coincide con la sempre più diffusa insicurezza a livello regionale e l'aumento dei movimenti di popolazione.

"Le piogge complicheranno ulteriormente quella che è una già difficile situazione umanitaria, dato che milioni di bambini, già resi vulnerabili dal conflitto, stanno affrontando una potenziale diffusione di malattie opportunistiche", ha dichiarato Marie Pierre Poirier, Direttore Regionale Unicef per l'Africa Occidentale e Centrale.

"Acqua non sicura, servizi igienico sanitari non adeguati e scarse condizioni igieniche possono causare epidemie di colera e di epatite E - malattia mortale per le donne in gravidanza e i loro bambini - mentre i ristagni d'acqua possono attrarre zanzare portatrici di malaria. Evitare la malattia è la nostra priorità", ha aggiunto.

Eid Mubarak

Blog Diritti Umani - Human Rights

A conclusione del mese benedetto di Ramadan, 
esprimiamo a tutti i lettori musulmani di questo Blog 
i  migliori auguri per l'Eid al-Fitr

sabato 24 giugno 2017

Cecenia. Un giornalista ha potuto visitare i campi di detenzione per gay

blogspot.it
In collaborazione con il canale americano Hbo, la rivista Vice ha pubblicato un reportage di nove minuti che mostra il primo reporter occidentale a cui è stato consentito di entrare nelle strutture cecene di Argun, ossia in quella ex-base militare cecena in cui sarebbero stati allestiti dei campi di detenzione illegale per gay.
Lo scorso aprile il quotidiano russo "Novaya Gazeta" riportò la notizia di oltre 100 uomini arrestati dalle autorità cecene per la loro presunta omosessualità, detenuti e torturati in prigioni non ufficiali. Alcuni di loro sono morti a causa delle violenze subite. 

A pochi giorni di distanza dalle prime notizie, il quotidiano aveva pubblicato anche le prime testimonianze e aveva indicato un ex edificio militare di Argun come una delle sedi adibite a campi di prigionia per gay, drogati e dissidenti politici. 

Al reporter Hind Hassan è stato permesso di visitare quei locali, anche se la visita è potuta avvenire solo sotto la supervisione delle autorità locali.
Ayub Kataew, il capo locale della polizia nazionale, ha negato che i fatti siano mai avvenuti e dinnanzi alle telecamere ha messo in piedi un imbarazzante teatrino in cui chiedeva ai suoi uomini se avessero mai torturato o detenuto illegalmente qualcuno. Ovviamente la risposta di tutti è stata "no".

Di contro, il reporter di Vice ha incontrato anche una delle vittime dell'ondata di persecuzione, il quale ha confermato che Kataew si sarebbe recato in quel campo proprio cercare di prevenire la possibilità che qualcuno indagasse su dodici persone rimaste uccise nel corso delle torture.
Indicativo è anche come alcune delle autorità intervistate dal reporter si siano affrettati non tanto a negare le violenze, quanto a sostenere che in Cecenia non esistono omosessuali. 

"Sono convinto che il rispetto delle tradizioni fa sì che in Cecenia non ci siano abbiamo queste persone", ha raccontato uno di loro.
In altri passaggi le autorità cecene si lanciano in frasi altamente omofoniche come il sostenere che non avrebbero mai potuto imprigionare dei gay perché gli ufficiali avrebbero avuto schifo anche solo a toccare "quel tipo di persone".

Fine del Ramadan - Presidenti di Tunisia ed Egitto: grazia a 700 detenuti

Nova
Tunisia. Il presidente Essebsi concede grazia a 196 detenuti in occasione dell'Eid al Fitr 

Il presidente della Repubblica tunisina, Bejiu Caid Essebsi, ha concesso la grazia a 196 detenuti in occasione della festa prevista per la fine del mese sacro del digiuno, il Ramadan. 

Le 196 persone a cui è stata concessa la grazia erano state in precedenza incarcerate per reati legati al traffico o al consumo di stupefacenti oppure erano detenuti portatori di handicap. 

La Eid al Fitr (in arabo festa della fine del digiuno) viene celebrata alla fine del mese lunare di digiuno del Ramadan, periodo in cui i musulmani digiunano dal sorgere al tramonto del sole. Lo scorso 13 gennaio Essebsi aveva concesso la grazia a 3.706 detenuti alla vigilia del sesto anniversario della rivoluzione dei gelsomini. Nei mesi scorsi la questione dell'affollamento delle carceri e del rimpatrio dei terroristi tunisini è stata al centro di un dibattito nel paese rivierasco. Il rimpatrio dei terroristi tunisini che hanno combattuto all'estero, concesso ai sensi della Costituzione del 2014, rappresenta un problema anche per le carceri del paese nordafricano sia per il sovraffollamento che per la possibilità radicalizzazione di detenuti per reati minori.

Ansa
Egitto. Il presidente al Sisi concede la grazia a 502 detenuti

Molti sono accusati di aver preso parte a cortei non autorizzati. Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sissi ha concesso la grazia a 502 detenuti, per la maggior parte accusati di avere organizzato manifestazioni non autorizzate. 

Lo ha reso noto un comunicato della presidenza. La decisione è stata presa in occasione della festa di Al Fitr e della rivoluzione del 30 giugno, quando venne defenestrato il presidente Mohamed Morsi, espressione della Confraternita. Tra i graziati figurano 25 donne e 175 uomini sotto i 30 anni di età, ma anche otto professori universitari, tre avvocati e cinque ingegneri, precisa il sito del quotidiano filogovernativo al Ahram. Lo scorso gennaio era stati graziati 147 detenuti grazie ad un decreto repubblicano e in occasione delle feste della rivoluzione del 25 gennaio e della polizia.

Africa, nel Sahel a causa della siccità si prepara la più grande migrazione della storia

La Stampa
I ricchi inquinano, i poveri pagano. Tassi di fertilità troppo alti. Demografi: mancano i contraccettivi

Africa e riscaldamento globale, emblema delle disuguaglianze della nostra epoca: sono i paesi ricchi a produrre gran parte dei gas serra, è l’Africa - soprattutto quella sub-sahariana, e il poverissimo Sahel - a subirne le conseguenze più gravi. 

Il continente ha una responsabilità minima (tra il 2 e il 4% delle emissioni annuali di gas serra); ma la sua temperatura, secondo quanto emerge da alcune ricerche delle Nazioni Unite, aumenterà una volta e mezzo più rapidamente della media globale, provocando condizioni meteorologiche sempre più estreme, con effetti potenzialmente devastanti. 

Prolungate siccità rischiano di esporre ad una penuria d’acqua fino a 250 milioni di africani entro il 2020. E nel 2040, secondo la Banca Mondiale, potrebbe deteriorarsi e divenire inservibile tra il 40 e l’80% della superficie dell’Africa sub-sahariana destinata alla coltivazione di cereali come grano e mais.

Già oggi, piogge scarse e irregolari sono una minaccia costante per il Corno d’Africa e altre parti dell’Africa orientale. La carestia somala del 2011, in cui morirono 250.000 persone, e l’attuale crisi alimentare del Corno sono da attribuire a un prolungato periodo di siccità che ha portato raccolti fallimentari, oltre a decimare il bestiame. Nell’emergenza in corso, le ultime stime dicono che, tra Somalia, Kenya ed Etiopia, 14,4 milioni di persone soffrono di “acuta insicurezza alimentare” e hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata. Mentre quasi tre milioni di somali sono già a un passo dalla carestia.

Particolarmente vulnerabile appare Il Sahel, quella striscia di terra semi-arida appena sotto il deserto del Sahara. Il cambiamento climatico agisce poi su un quadro politico ed economico già molto precario. 

Vastissima - si estende dalla Mauritania all’Eritrea - e in forte crescita demografica, la regione conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330 milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. 

Ogni anno, centinaia di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente, l’Europa. Il dibattito sul tema resta aperto, tuttavia, gran parte degli studi sembrano concludere che l’aumento della temperatura - più 3-5 gradi, entro il 2050; e forse 8 gradi alla fine del secolo - renderà molte aree del Sahel ancora più inospitali, intensificando la frequenza delle migrazioni. Secondo un documento dell’ African Institute for Development Policy, l’aumento delle temperature potrebbe causare un calo della produzione agricola che va dal 13% del Burkina Faso al 50% del Sudan. Altre ricerche, più pessimiste, ipotizzano autentiche apocalissi. Il Washington Post pochi giorni fa ne ha citata una secondo cui il Sahel, a causa di una reazione a catena innescata dallo scioglimento dei ghiacci artici, rischia di inaridirsi completamente, costringendo ad emigrare centinaia di milioni di persone entro la fine del secolo. Probabilmente la più gigantesca migrazione nella storia dell’umanità.
Aldilà di previsioni che ci si augura eccessivamente funeste, è chiaro che l’emergenza Sahel è aggravata da una crescita della popolazione che appare oggi fuori controllo. Anche le Nazioni Unite, di solito inclini ad un evasivo linguaggio diplomatico, hanno detto che sfamare il Sahel sta diventando una “missione impossibile”. Chi si occupa di demografia è dello stesso parere, ma suggerisce di alleggerire la pressione limitando le nascite. Tassi di natalità troppo alti sono considerati un ostacolo allo sviluppo economico e sociale. Alcuni paesi sembrano aver recepito il messaggio. Per esempio il Niger, dove le donne partoriscono una media di 7,6 figli a testa, si è posto l’obiettivo di raddoppiare l’uso di contraccettivi. Segnali incoraggianti in una regione in cui la pianificazione familiare continua però ad essere colpevolmente trascurata. 

Eppure invertire questa tendenza è possibile. Tutte le “tigri asiatiche” hanno registrato cali repentini dei loro tassi di natalità fin dagli anni sessanta. Quando alle donne vengono date opzioni realistiche di pianificazione familiare, il numero di figli si riduce, anche piuttosto rapidamente. In Bangladesh, paese islamico conservatore, oggi le donne hanno una media di 2,2 gravidanze a testa. L’Islam quindi non è un ostacolo. Quello che manca in Sahel è la volontà politica di affrontare il problema. I governi locali sono colpevoli. Ma una parte di responsabilità ricade anche sulla comunità internazionale. Le Nazioni Unite, per esempio, in un recente documento per lo sviluppo del Sahel, hanno ricordato l’urgenza della crisi e la necessità di aiuti immediati. Senza però far mai menzione, in 45 pagine, né di anticoncezionali né di pianificazione familiare.

Tommaso Carboni

venerdì 23 giugno 2017

Migranti, OIM bilancio catastrofico: 2.100 morti nel Mediterraneo nel 2017

AnsaMed
Oltre 2.100 uomini, donne e bambini sono morti quest'anno nel Mediterraneo mentre tentavano di giungere in Europa via mare: secondo gli ultimi dati resi noti oggi a Ginevra dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) dall'inizio del 2017 al 21 giugno scorso un totale di 2.108 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo. 


Di questi, 2.011 sono deceduti sulla rotta del Mediterraneo centrale tra il Nord Africa e l'Italia, si legge in una nota dell'Oim. Sono in totale 15mila i morti dall'inizio dell'emergenza, nel 2013.

Il dato globale sui decessi nel Mediterraneo è inferiore al numero registrato durante lo stesso periodo dell'anno scorso (2.911), ma si tratta 'comunque del quarto anno consecutivo durante il quale la soglia di migranti morti nel Mar Mediterraneo ha superato i 2.000', insiste l'Oim.

Il numero totale di decessi nel Mediterraneo dall'inizio dell'emergenza nei primi mesi del 2013 è ora a quasi 15.000.

Siria. Torna la poliomielite, vaccinarsi è un sogno impossibile

Corriere della Sera
L'Organizzazione Mondiale della Sanità segnala per l'ennesima volta il dramma dei bambini non vaccinati nella Siria in guerra. Molti sono già ammalati di poliomielite, tanti vorrebbero vaccinarsi ma non riescono. Alcuni di noi, nelle comode città protette, invece deridono il vaccino e addirittura fanno campagne per abolirlo.



Fa riflettere questo mondo curioso, dove chi ha tanto spreca e butta via con disprezzo ciò che invece chi non ha vorrebbe disperatamente. Siamo talmente viziati dai nostri privilegi che neppure sappiamo più apprezzarne il valore. Parliamo dei vaccini. 

L'Organizzazione Mondiale della Sanità segnala per l'ennesima volta il dramma dei bambini non vaccinati nella Siria in guerra. 

Almeno 17 nelle regioni orientali sono rimasti paralizzati dalla poliomielite. Altri 200 sono infettati dal virus, che continua a diffondersi. Motivo? Il caos del conflitto che infuria dal 2011: i bombardamenti criminali e sistematici di cliniche e ospedali (in cui si sono distinti il regime di Assad e i suoi alleati), l'assassinio programmato di medici, infermieri e farmacisti hanno impedito la somministrazione su larga scala del vaccino. 

Così, malattie che anche in Siria erano scomparse da decenni stanno tornando a colpire. Noi, nel comodo delle nostre città, dall'alto di privilegi che erroneamente diamo per scontati, neppure più sappiamo cosa sia la poliomielite.

L'incubo dei nostri avi sino a solo tre generazioni fa è svanito. Possiamo persino arrogarci il diritto di sfidarlo, di deriderlo, tanto da mettere a rischio i nostri figli. Invece, la poliomielite è un virus terribile, altamente contagioso, si diffonde per via orale-fecale, infiamma il midollo spinale, paralizza le gambe, arriva al cervello, trasforma l'esistenza in un inferno. 

E non è l'unico virus "di ritorno". Altre malattie, una volta considerate battute grazie alle campagne di prevenzione, sono massicciamente tornate nelle aree di guerra. Andate a chiederlo ai bambini siriani. Che non sono i soli. 

Da tempo lo stesso tipo di allarme viene lanciato dalle organizzazioni umanitarie operanti in Iraq, Afghanistan, nelle aree tribali pakistane, nel profondo dell'Africa. I talebani e le organizzazioni jihadiste in nome di un folle primitivismo anti-occidentale danno la caccia alle équipe mediche che cercano di vaccinare i minori nelle zone rurali. 

Per tanti il vaccino sta diventando un sogno impossibile. Lo cercano, si disperano per averlo. Alcuni di noi invece lo deridono e addirittura fanno campagne per abolirlo.

Lorenzo Cremonesi

Uccisi, feriti, mutilati e orfani: l'Unicef raccolta la tragedia dei bambini iracheni

Globalist
Sono stati uccisi 1.075 bambini, 1.130 sono stati mutilati e feriti, 255 solo quest'anno


Dal 2014, in Iraq sono stati uccisi 1.075 bambini, 152 nei primi sei mesi del 2017; 1.130 bambini sono stati mutilati e feriti, 255 quest'anno. Sono alcuni dei dati di uno studio dell'Unicef, "Nowhere to go" (Nessun luogo in cui andare), sulla condizione dei bambini iracheni a tre anni dell'intensificarsi delle violenze nel paese. 

L'organizzazione dell'Onu stima che sono oltre 5 milioni i bambini che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Fra l'altro, nel corso di questi anni: 4.650 bambini sono stati separati dalle loro famiglie o rimasti soli; si sono verificati 138 attacchi su scuole e 58 attacchi su ospedali; oltre 3 milioni di bambini non frequentano regolarmente la scuola, mentre 1,2 milioni di bambini sono completamente esclusi dal sistema scolastico; un bambino su 4 proviene da un nucleo familiare povero.

"In Iraq i bambini continuano ad essere testimoni di orrori assoluti e violenze inimmaginabili - ha detto Peter Hawkins, rappresentante dell'Unicef in Iraq - Sono stati uccisi, feriti, rapiti e costretti a sparare e uccidere. 

A Mosul ovest, i bambini sono stati deliberatamente presi di mira e uccisi per punire le famiglie e dissuaderle dalla fuga dalle violenze. In meno di due mesi, soltanto in quella parte della citta', sono stati uccisi almeno 23 bambini e ne sono stati feriti 123". Solo negli ultimi tre anni, a causa del conflitto 3 milioni di persone sono sfollate, meta' delle quali bambini. 

L'Unicef, che continua a portare soccorso ai bambini iracheni e alle loro famiglie, chiede, fra l'altro, la fine immediata del conflitto; l'accesso di tutti i bambini all'assistenza umanitaria; la fine di tutte le gravi violazioni contro i bambini, inclusa l'uccisione, le mutilazioni e il reclutamento; la liberta' di movimento per tutte le famiglie; maggiori investimenti e contributi per i bisogni primari e per la risposta umanitaria.

giovedì 22 giugno 2017

Export d'armi. Appello al Parlamento: basta bombe italiane all'Arabia Saudita

Avvenire
Le associazioni: subito una mozione parlamentare, come quella Ue, per bloccare l'invio di armamenti per la guerra in Yemen e per finanziare la riconversione delle industrie belliche
Frammento di un ordigno RWM Italia: per l'ong Mwatana è stato usato a ottobre in Yemen in un raid che ha ucciso 6 persone, di cui 4 minori, condotto dalla Coalizione internazionale a guida saudita contro l'insurrezione locale degli Huthi
L'appello, presentato stamattina alla sala stampa della Camera dei deputati, è sottoscritto da Amnesty International Italia, Rete della pace, Fondazione finanza etica, Oxfam Italia, Movimento dei focolari e Controllarmi-rete italiana per il disarmo. 

Le associazioni chiedono a deputati e senatori di portare alle Camere una mozione conforme a quella già approvata dal Parlamento europeo il 25 febbraio 2016 - e confermata il 15 giugno - che invitava ad avviare «un'iniziativa finalizzata all'imposizione di un embargo da parte dell'Unione europea sulle armi nei confronti dell'Arabia Saudita», nazione alla guida dell'intervento militare di una coalizione contro lo Yemen, senza alcun mandato delle Nazioni Unite.

Il Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen, inviato il 27 gennaio al Consiglio di sicurezza dell'Onu, documenta l'uso di ordigni italiani nei bombardamenti sulle aree civili affermando che queste azioni «possono costituire crimini di guerra». 

Il cartello dei promotori ricorda che l'Italia vende bombe prodotte nello stabilimento della RWM Italia Spa di Domusnovas, vicino Cagliari. RWM Italia - azienda italiana con sede a Ghedi, Brescia, controllata dal gruppo tedesco Rheinmetall - secondo la relazione al Parlamento della legge 185 sulle esportazioni di armi, nel 2016 ha ottenuto 45 nuove autorizzazioni dal nostro ministero degli Esteri per un totale di 489,5 milioni di euro. Un vero e proprio boom, rispetto al 2015 quando aveva ottenuto autorizzazioni per 28 milioni, che ha portato la RWM al terzo posto per giro d'affari nel settore Difesa in Italia.

Vendere ordigni che hanno contribuito a uccidere 4.700 civili e ferirne 8 mila secondo i promotori è una triplice violazione di legge da parte del governo: dell'articolo 11 della Costituzione, della legge 185/90, del Trattato internazionale sul commercio delle Armi ratificato dall'Italia nel luglio del 2014. La procura di Brescia ha da tempo aperto un'inchiesta. 

Oltre allo stop dell'esportazione di armi, la mozione chiederà l'attivazione e il finanziamento del fondo per la riconversione dell'industria bellica, previsto nella stessa legge 185/90, per superare l'aut-aut tra conservazione degli 86 posti di lavoro della RWM in un territorio economicamente depresso in cambio della produzione di strumenti di morte.

Quando si trattò di convertire la fabbrica di Domusnovas da produzioni civili a produzioni militari, d'altronde, i soldi pubblici vennero trovati: nel 2001 infatti lo Stato finanziò con diversi miliardi di lire la riconversione della Sei (Sarda esplosivi industriali) che produceva esplosivi per cave e miniere, all'epoca controllata dalla francese Saepc. La fabbrica venne ampliata e convertita alla produzione militare di bombe da aereo, l'attuale RWM.

Luca Liverani

Kenya, una lattina per suonare. Viaggio tra i "bambini spazzatura"

La Stampa
Reportage fotografico tra i “bambini spazzatura” di Nairobi. Nel progetto di recupero i rifiuti diventano strumenti musicali


Bambini spazzatura: chokorà, che in swahili, la lingua ufficiale del Kenya, significa rifiuto. Sono chiamati così a Nairobi i giovani che vivono attorno all’enorme discarica di Dandora. Considerati al pari dell’immondizia, nell’organizzazione intorno a questa montagna di cinque chilometri quadrati loro sono gli ultimi. Inferiori anche agli animali. Passano le giornate a scavare in un inferno di rifiuti che ribolle, fermenta e marcisce, portando con loro un odore dilagante e inestinguibile. 


Tra vetri, materiali organici e lamiere rischiano di ferirsi e ammalarsi. Cedono all’abuso di droga e di alcol: colla da respirare e distillati casalinghi tossici. Lo fanno per meno di un euro al giorno. Il compito, condiviso con altri membri della famiglia, è quello di selezionare materiali che possono essere venduti. Molto spesso, la discarica dà loro anche da mangiare: cibo spazzatura a Nairobi non significa un hamburger a basso prezzo, ma frutta avariata, barattoli di yogurt marciti e scarti di produzione.

Non tutte le storie dei chokorà, però, finiscono male. Le fotografie di Valentina ne raccontano un’altra. «È una storia di recupero: i rifiuti diventano strumenti musicali». In venti giorni a Nairobi ha seguito l’ong Amref in uno dei percorsi organizzati nella baraccopoli di Dagoretti: i materiali di scarto vengono portati i laboratorio e trasformarti in tamburelli e percussioni. Si spezza così il circolo vizioso degli slum e il lavoro è curato da operatori che a loro volta sono stati aiutati da Amref.

«Più del 97% di loro proviene dalle zone dove l’organizzazione è presente», come spiega Fabio Bellumore della sede romana della organizzazione. È proprio Amref Italia, per festeggiare i 60 anni di attività dell’ong, che ha organizzato la mostra fotografica (dal 22 giugno alla Galleria Mario Giusti di Milano ). Quindici foto in bianco e nero, e una sorpresa: due strumenti creati dai ragazzi di Dagoretti saranno suonati dalla violinista Eleonora Montagnana. La musica è parte integrante del progetto, che si intitola proprio «Un barattolo che voleva suonare».

«Ricordo Pauline, mamma della baraccopoli», racconta Valentina. «Da quando i suoi bambini non sono più costretti ad andare in discarica, lei ha iniziato a cantare gospel, canta tutto il giorno». Lo stigma di rifiuti è andato via, l’odore è scomparso. Ora dai Chokorà arriva il suono di un mondo che riscrive il proprio futuro.

Nicolas Lozito, foto di Valentina Tamborra

Aumentano gli immigrati che dall’Italia se ne tornano a casa

WEST
Aumentano i giovani italiani e gli immigrati che lasciano il Belpaese. I primi, tra il 2008 e il 2015, hanno superato quota mezzo milione. Germania, Regno Unito e Francia sono in cima alle mete preferite dai nostri ragazzi per andare a studiare e lavorare all’estero. 

Ma non sono solo gli autoctoni a dire addio all’Italia. Nello stesso arco di tempo, infatti, quasi 300mila stranieri, soprattutto provenienti dall’Est, sono rientrati in madrepatria. Romania in primis. A fotografare e spiegare il perché di questo fenomeno è l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro

Secondo il quale molto è dovuto, come è facile immaginare, alla crisi del nostro mercato occupazionale. Ma non solo. 

Perché l’inversione di tendenza dei flussi migratori è da considerare, almeno in parte, fisiologica. Il ritorno in patria dopo anni di lavoro e risparmi messi da parte è lo step finale di quello che viene definito progetto migratorio.

mercoledì 21 giugno 2017

Eritrea. Più di 120 cristiani arrestati nell’ultimo mese nella “Corea del Nord africana”

Tempi
Fedeli prelevati a forza dalle case e anche da un ricevimento di matrimonio. Una retata su scala nazionale del governo ingrossa le prigioni già popolate da oltre tremila cristiani


Più di 120 cristiani sono stati arrestati in Eritrea nell’ultimo mese durante una retata su scala nazionale del governo contro le denominazioni religiose non ufficiali. L’ondata di detenzioni conferma il triste epiteto dato al paese (“Corea del Nord africana”), che è terzo nella speciale classifica degli Stati dove i cristiani sono più perseguitati.

Impossibile registrarsi. Nel 2002 lo Stato del Corno d’Africa, retto dal dittatore Isaias Afewerki da oltre 20 anni, ha riconosciuto ufficialmente quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Teoricamente, qualunque confessione può registrarsi per essere riconosciuta ma nei fatti le richieste vengono sempre respinte e usate per reprimere chi fa domanda. La persecuzione è tale che secondo un rapporto dell’Onu «il regime percepisce la religione come una minaccia alla sua stessa esistenza».

Arresti in tutto il paese. Come riportato da Christian Solidarity Worldwide (Csw), 54 cristiani, inclusi vecchi, donne disabili e intere famiglie, sono stati arrestati nella città di Adi Quala, nel sud del paese. I fedeli sarebbero stati portati nel campo di detenzione di Adi Aglis, mentre almeno 23 bambini sarebbero rimasti nella città senza genitori. Altri 15 cristiani sono stati arrestati a Gindae, nel nord.

Retata a un matrimonio. Nella capitale Asmara 17 cristiani sono stati portati via dalle loro case il 28 maggio. Una settimana prima, la polizia ha fatto irruzione durante il ricevimento di matrimonio di una coppia cristiana arrestando 45 invitati. Secondo il direttore esecutivo di Csw, Mervyn Thomas, «questi arresti evidenziano la rinnovata intensità del controllo sulle religioni da parte del governo e confermano che la libertà religiosa e di culto continuano ad essere negate in Eritrea».

Tremila in carcere. Secondo la testimonianza a Tempi di un sacerdote che ha visitato di recente l’Eritrea, e che non può rivelare il suo nome per ragioni di sicurezza, ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono «migliaia», il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si uò essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia.

«La situazione è molto delicata», spiega: «I cattolici sono confinati dentro le mura delle chiese, dove possono praticare le loro attività. Fuori non possono fare nulla. Il proselitismo è vietato e anche per stampare libri religiosi ci vuole un’autorizzazione dello Stato. A malapena c’è la Bibbia, che comunque è molto costosa e difficile da reperire».

Leone Grotti