Pagine

giovedì 22 settembre 2016

Eritrea, si allunga la lista delle sparizioni dei dissidenti del regime

La Repubblica
Ministri e giornalisti scomparsi per sempre, mentre la stampa indipendente veniva abolita. Era Il 18 settembre 2001, una data simbolo per gli Eritrei di tutto il mondo. Segna la fine delle speranze di democratizzazione, e l’inizio delle fughe dal paese. Quindici anni dopo, la lista di “desaparecidos” è ancora più lunga. Le testimonianze

Roma - “A partire da oggi, 18 settembre 2001, il governo ha ordinato a tutti i media privati di fermare le pubblicazioni”. Un comunicato secco e senza diritto di replica, diffuso dalla radio di stato verso le otto del mattino e ripreso immediatamente dalle stazioni private, ormai sull’orlo del baratro. Mentre i cittadini di Asmara e delle città principali assistevano increduli alla fine di una breve stagione di dibattito pubblico, la polizia del regime rastrellava case e redazioni. Undici alti esponenti del partito, fra ministri e segretari, erano stati arrestati in poche ore. Con loro otto giornalisti. Prime vittime di una catena di epurazioni proseguita nei giorni e negli anni seguenti, che avrebbe aperto la strada dell’esilio a decine di migliaia di persone.

Fine delle speranze democratiche. “Sapevamo che il regime utilizzava la violenza anche prima, e oggi lo sappiamo ancora meglio”, spiega Tsedal Yohannes, lo sguardo intenso e una voce profonda, controllata. “Conosciamo gli abusi compiuti prima del 2001 - le persecuzioni dei Testimoni di Geova e dei leader musulmani, la scomparsa degli ex-guerriglieri disabili che chiedevano di avere la pensione - ma il 18 settembre ha segnato una presa di coscienza, un’accelerazione tragica: qualsiasi speranza democratica era morta, e chi aveva lottato per anni per questo, non aveva più spazio”. Fra loro proprio i famigliari della donna, oggi residente nel Regno Unito.

La storia di Aster. Yohannes racconta la sua, e la loro, storia, in una pausa del simposio dell’Eritrean Women Network, organizzato nei giorni scorsi a Roma dalla scrittrice italo-eritrea Ribka Sibathu. Un vortice di impunità, dolore, e morte che ha assorbito la sua vita, rischiando di trascinarla nel silenzio, e che ha legami inscindibili con la storia italiana. “Per prima cosa devo parlare di mia sorella”, spiega però, soppesando con drammatica incertezza verbi declinati al passato e al presente. “Aster Yohannes era, o meglio è, una sorella maggiore affettuosa, sempre pronta a aiutare il prossimo”.
Lotta per l’indipendenza. “Nel 1979 Aster interruppe gli studi di ingegneria per unirsi ai movimenti di guerriglia, convinta che la liberazione dell’Eritrea dalla presenza etiopica avrebbe portato progresso e diritti”. Anni di clandestinità nelle montagne fra Sudan e Eritrea, fino alla presa di Keren e Asmara, ai trattati di pace e al referendum per l’indipendenza del 1993. E’ durante la guerriglia che Aster conosce Petros Solomon, comandante del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, e futuro ministro della Difesa, degli Esteri e delle risorse marine. Un uomo carismatico, ben presto inviso a Isaias Afewerki, primo e unico presidente del giovane stato africano.
Il primo arresto. Nel maggio 2001, Solomon è fra i quindici firmatari di una lettera aperta all’ex-movimento di guerriglia, diventato nel frattempo partito unico. Chiedono l’entrata in vigore della costituzione, promessa eternamente mancata, ed elezioni multipartitiche. Per Afewerki è una sfida intollerabile. “Quando mio cognato venne arrestato, quel 18 settembre, mia sorella era negli Stati Uniti; aveva lasciato i quattro figli a lui e ai nonni, per concludere gli studi interrotti vent’anni prima”. La donna chiede subito che i bambini la raggiungano oltreoceano, ma senza risultato. “E’ allora che si è rivolta all’ambasciata, che le ha rinnovato il passaporto e promesso che non avrebbe avuto problemi a tornare”.

Scomparsa di Aster. Le cose non andarono così e quella sera, ad attenderla sulla pista d’atterraggio, Aster Yohannes trovò gli uomini del regime. “Mia madre e i bambini erano andati all’aeroporto, con dei mazzi di fiori, felici di poter riabbracciare Aster, ma quei fiori si seccarono”. “Da quel giorno - scandisce Yohannes passandosi una mano sulla capelli ricci - siamo rimasti tutti orfani”. Come per il marito e per gli altri arrestati prima di lei, nessuno seppe più nulla di Aster Yohannes. “Nessun processo, nessuna informazione, nessun modo di sapere se mia sorella era viva, e dove si trovasse”.
La fuga. Sui famigliari cadde invece una cortina di paura e isolamento. “Gli stessi parenti mi evitavano”, spiega Yohannes, “e i miei nipoti venivano derisi e emarginati a scuola, talmente è forte il timore verso l’apparato di Afewerki”. Dopo aver abbandonato il paese, Yohannes ha aiutato anche la madre e i nipoti a scappare, “con grandi difficoltà, perché anche loro sono stati arrestati mentre cercavano di andarsene, torturati e tenuti per mesi in una delle numerose prigioni eritree”.

Nell’arcipelago gulag di Asmara. “Quando dico carcere”, ci tiene a sottolineare, “non intendo quello a cui si pensa in Europa: in Eritrea le carceri sono luoghi privi di tutto, sotterranei o nel deserto, in cui se va bene ricevi una tazza di lenticchie bollite al giorno”. Un “arcipelago gulag” denunciato da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, e per cui il regime di Afewerki, secondo una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, è responsabile di crimini contro l’umanità. “La tortura è pratica quotidiana e scientifica: le più note sono l’elicottero, il diamante, il ferro, l’otto, l’annegamento… Si simulano seppellimenti, si usa l’elettroshock e gli abusi sessuali sono continui”.
Torture “italiane”. Nella conversazione, in inglese, emergono due parole italiane, “ferro” e “otto”. Così, ancora oggi, gli aguzzini chiamano due pratiche di tortura, tramandate molto probabilmente dagli occupanti italiani. Che, sottolinea la scrittrice Ribka Sibathu a margine dell’incontro, “hanno lasciato un’altra eredità al paese, proprio le carceri, che prima della colonizzazione non esistevano”. 34 i centri di detenzione segreti mappati da Amnesty International, e almeno 10mila i prigionieri politici secondo l’organizzazione inglese. Un sistema di repressione totale, che confina l’Eritrea nell’ultima posizione, per il 2016, dell’indice sulla la libertà di stampa di Reporters Senza Frontiere.

E fondi europei. “Gli eritrei che arrivano sulle nostre coste, quelli bloccati oggi in Italia da un piano di relocation che non funziona, quelli morti il 3 ottobre 2013 a Lampedusa, e in molti altri naufragi, sono figli di questa storia, e di questa data”, denuncia Sibathu, rimproverando un’Europa che “continua a finanziare il regime eritreo, nonostante queste vicende”.
Un riferimento ai 200 milioni di euro stanziati da Bruxelles all’interno del Fondo per lo Sviluppo, per i prossimi quattro anni. Un contributo criticato dallo stesso Parlamento Europeo ma di cui la prima tranche, di 18,7 milioni, è già stata concessa.

Giacomo Zandonini

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.