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giovedì 19 maggio 2016

Kenya: chiusura campo di Dadaab, a rischio 320mila rifugiati

Radio Vaticana
E’ il più grande campo profughi del mondo, l’unico posto sicuro per 300-400mila rifugiati dell'Africa orientale: si chiama Dadaab e si trova nel nord est del Kenya. Dopo 25 anni il governo ha ribadito l’intenzione di chiuderlo e questa volta sembra intenzionato a farlo. Le ragioni sono discutibili, le alternative non ci sono e il dramma che si profila è incalcolabile, denunciano molte organizzazioni umanitarie. 


Somali al campo profughi di Dadaab
Chi lo ha visitato ne parla come un “limbo permanente per un popolo invisibile”, un “gigantesco parcheggio della disperazione”, per profughi di varie crisi. Oggi gli abitanti sono circa 325mila a Dadaab - quanto una città come Novara o Benevento - stipati in tende, in un “luogo roccioso e duro”, questo significa la parola "Dadaab". Qui le condizioni di vita sono pessime già oggi, dicono Medici senza Frontiere, unica possibilità di assistenza sanitaria presente. 

François Dumont di Msf:

"Queste persone sono in condizioni igieniche scarse, poco accesso ai servizi di base, pochissima organizzazione. Perché le condizioni di sicurezza in questa regione sono difficili: rimane un posto sperduto, una città in mezzo al nulla".

Ora la minaccia di chiusura, altre volte paventata e poi risolta con una lauta iniezione di liquidità internazionale, sembra seria. La sicurezza e le infiltrazioni terroristiche, tra i motivi, ma le Ong non sono d’accordo. Ancora Dumont di Msf:

"Sappiamo che ci sono questi problemi di sicurezza e comprendiamo anche la necessità del governo kenyota di proteggere la sua popolazione. Allo stesso momento, ci sono anche obblighi internazionali, gli obblighi umanitari di proteggere chi scappa dalla guerra, chi è rifugiato. Ci sono le Convenzioni di Ginevra che il Kenya ha firmato".

Mancanza di fondi e una campagna per le presidenziali del 2017 già avviata, in cui il tema dei rifugiati sarà un tema forte, sono le altre cause della decisione. Di certo, non c’è volontà politica di trovare alternative:

"Il governo kenyota potrebbe cercare altre soluzioni, come per esempio campi più piccoli, più al sicuro per le persone, più accettabili, o la ricollocazione, anche in altri Paesi, e questa è una soluzione che non è stata esplorata o ricercata abbastanza. Anche altre misure potrebbero essere incrementate per integrare le persone nella società keniana. A pochissime settimane dall’Accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che, in un certo senso, nega anche l’asilo alle persone che fuggono dalla guerra verso l’Europa, e ora dopo questo annuncio molto preoccupante del Kenya, vorremmo dire al governo kenyota che potrebbe essere un esempio per il resto della comunità internazionale, e far vedere che si può trattare umanamente chi scappa dalla guerra e dai conflitti".

Ma è anche vero che, proprio le scelte politiche deboli dell’Europa in merito a rifugiati e profughi, possono avere ispirato il governo kenyota. Ancora Dumont:

"Infatti, c’è un doppio discorso degli Stati della comunità internazionale che dicono al Kenya e ad altri Stati di accogliere le persone che fuggono e scappano dalla guerra, ma che, allo stesso momento, l’Europa dimostra che sul suo proprio territorio non lo sta facendo. Quindi, noi non possiamo collegare l’annuncio del Kenya alla situazione in Europa, sicuramente però manda un segnale al resto del mondo che è molto preoccupante, perché vuol dire che si può decidere di non accogliere, di non trattare con umanità, le persone che hanno diritto di protezione. Per questo chiediamo al governo kenyota di riconsiderare la sua decisione, perché le persone oggi, se chiude il campo, saranno spinte o a ritornare in Somalia o forse a intraprendere il viaggio verso l’Europa passando per la Libia, eccetera. Le persone sono vulnerabili, sono esposte a violenze, sfollamenti ulteriori eccetera, perché sappiamo che la situazione in Somalia non è stabile. C’è un accesso limitatissimo alle cure mediche, in Somalia, e quindi questo vuol dire che se un alto numero di persone che sta nel campo di Dadaab sono costrette a non avere altra opzione che tornare in Somalia, sarebbe catastrofico, disastroso e devastante per loro".

Gabriella Ceraso

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