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lunedì 27 aprile 2015

Eritrea: in 2.000 scappano ogni mese, l'ex colonia italiana diventata la prigione d'Africa

Corriere della Sera
"Dolce vita": è il marchio di certe camicie che si vendono in Eritrea. A produrle è una ditta italiana. Dà lavoro a oltre 500 persone. Fabbrica ad Asmara, capitale della nostra ex colonia da cui scappano duemila persone al mese, secondo le stime dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati. Una settantina al giorno. Non c'è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato.

Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell'ultimo naufragio. Descriverla come una prigione a cielo aperto, la Nord Corea africana del dittatore un tempo marxista Isaias Afewerki, è un luogo comune. Così comune che diventa normale dimenticarselo. Roma è la capitale che, tra mille difficoltà, vanta i migliori rapporti diplomatici con la linda Asmara dove i palazzi ricordano Latina e nei bar ti versano ancora il Punt e Mes in versione africana.

Ragioni storiche, culturali. Il popolo eritreo è meraviglioso. Ma in Eritrea la dolce vita è soltanto il marchio di una camicia. Per questo Almas, 29 anni, è scappata con la figlia. Ha lasciato la sua terra coi genitori quando era piccola. È cresciuta in Sudan, alla periferia di Khartum, ha sposato un connazionale. Quando lui è morto, non sapeva come sfamare la bimba. Girava voce che in Libia si trovasse lavoro. Non sapeva che c'era il caos? "No, non lo sapevo - dice al Corriere. Non avevo scelta".

Il 15 novembre scorso, tratta con dei passeur e parte. "Quando ho superato il confine ho capito che c'era la guerra". I trafficanti la portano ad Agedabia, in Cirenaica. Ma poi le dicono le strada è chiusa, impraticabile: deve andare a Tripoli. Lì trova lavoro come badante: "Ma non si poteva vivere, bombe e spari ovunque, faceva paura". Gli 800 dinari guadagnati li usa, allora, per pagarsi un passaggio in mare, assieme alla figlia. Almas dice che "i veri trafficanti non si vedono", le persone con le quali ha trattato erano "aiutanti", parlavano il tigrigno, forse erano pure eritrei. In mare, racconta, è stata fortunata, un giorno e mezzo di navigazione soltanto, a bordo di un gommone stipato di 200 africani, fino all'Italia, pochi giorni fa. Cosa volete che sia, restare pigiati su un barcone, per chi magari ha sofferto la tortura dell'otto.

Altro nome italiano, come dolce vita. Nella posizione dell'otto, il torturato in Eritrea viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro la schiena. Lo racconta al Corriere Mike Smith, al telefono da Sidney. Veterano della diplomazia australiana, ha guidato la commissione d'inchiesta Onu sull'Eritrea istituita dal Human Rights Council: 400 fuggiaschi (gli ultimi scappati dall'Eritrea a febbraio), 140 testimonianze scritte, rapporto finale presentato a Ginevra due mesi fa. La storia che gli è rimasta più impressa è quella di un giovane di 32 anni, che chiameremo Issa, incontrato in un campo profughi in Africa.

"Un giorno i militari sono andati a prenderlo nel suo villaggio". Quel giorno è entrato nel meccanismo infernale del "servizio militare" permanente. Una specialità eritrea per tutti i ragazzi e le ragazze dai 16 anni in su. La generazione dei warsai, cresciuti nell'Eritrea indipendente. Ma non libera. Entri nei campi militari e ne esci vecchio. Prima l'addestramento, poi lavori forzati secondo i voleri degli ufficiali. Agricoltura, infrastrutture Issa ha fatto il bracciante, 7 giorni su 7. Per 10 anni. La sua gioventù, la sua dolce vita.

Una volta ogni quattro anni gli permettevano di tornare a casa. Guadagnava 500 nafka, meno di 10 euro. Finché riceve la lettera della sorella: "Hanno arrestato tuo fratello, torna". Lui va al villaggio, cerca di capire dov'è il ragazzo, perché l'hanno preso. Gli ordinano di tornare al suo posto, se non vuole farsi arrestare. Al campo viene punito. Cinque giorni la tortura dell'otto, un paio di volte al dì gli slegano un braccio per un sorso e un boccone.

Un giorno che è di turno alla frontiera, prova a scappare. Gli va bene. Non gli sparano come succede ad altri. Entra nella schiera infinita dei Segre-dob, "coloro che attraversano il confine". "Quell'uomo è il simbolo dell'Eritrea - dice Smith. Alla fine mi ha chiesto cosa avremmo fatto per lui, ho risposto che potevamo almeno far conoscere la sua storia. "Per me sarebbe già molto", ha sorriso prima di scomparire nella polvere del campo".

Cosa volete che sia, per i Segre-dob come Issa, sopportare i trafficanti di uomini fino alle coste libiche. Lui con "gli schiavisti" è cresciuto a casa sua. Non ha soldi per proseguire l'odissea. Un posto su un barcone forse sarebbe già un miraggio. Un miraggio anche per le 400 persone prigioniere a Misurata, in Libia, da mesi. Soprattutto eritrei. Lo denuncia don Mussie Zerai, riferimento in Europa di tutti i Segre-dob. In 60 viaggiavano verso Tripoli, avevano già pagato 1.600 dollari a testa per arrivare al porto. Scortati dai trafficanti sono stati fermati da un'altra banda, c'è stata una sparatoria (tre eritrei morti).

Gli assalitori si sono accaparrati la "merce umana", portandola in una "prigione" di Misurata. Lì c'è una donna libica che convoca i migranti uno alla volta: se vogliono essere liberati devono pagare altri 2.000 dollari, devono chiamare familiari o amici ai quali vengono date indicazioni su dove spedire il "riscatto". Cinquanta donne sono state portate via e non si sa che fine abbiano fatto. Eccola, la dolce vita degli eritrei prima di incontrare il Mediterraneo. Mario Giro, sottosegretario agli Esteri, dice che il governo italiano fa della questione dei diritti umani una questione centrale nel dialogo con Afwerki. Il regime ha annunciato che ridurrà il servizio nazionale a 18 mesi. La gente non si fida, dice Smith. Asmara dovrebbe fare un gesto concreto, forte, come per esempio cominciare a liberare una parte dei 10 mila prigionieri politici.

di Alessandra Coppola e Michele Farina

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