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martedì 14 aprile 2015

Case ai rom, così Alghero fa scuola. Utilizzo fondi UE e 13 famiglie ora abitano in città

La Nuova Sassari
Fondi Ue per chiudere il campo: il Comune modello nazionale d’integrazione. Applicata la direttiva dell’Ue sull’inclusione. Tredici famiglie ora abitano in città
Alghero. A Fertilia, lo scorso gennaio, è accaduto ciò che dovrebbe accadere dappertutto in Italia: il campo nomadi è stato chiuso e ai rom è stata data una casa. Dovrebbe accadere, ma quasi mai accade. Tre anni fa, su sollecitazione dell’Unione europea, il governo italiano ha elaborato un documento di indirizzo intitolato “Strategia nazionale di inclusione di rom, sinti e camminanti”: rom e sinti sono i due grandi gruppi di lingua romanì che vengono dai Balcani e dall’Europa dell’Est, i camminanti sono presenti per lo più in Sicilia, discendenti dai rom arrivati in quell’isola nel Trecento da India e Pakistan.

Il progetto. La “Strategia nazionale di inclusione” punta all’eliminazione di quei veri e propri ghetti che sono i campi nomadi e all’integrazione dei rom nelle comunità locali. Si è fatto pochissimo, però, nei tre anni trascorsi dalla sua definizione, per passare dalle parole ai fatti. Tant’è vero che lo scorso 10 marzo la Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato ha approvato, su iniziativa del suo presidente, Luigi Manconi, una risoluzione che chiede al governo di recuperare al più presto il ritardo, allineandosi, finalmente, alle indicazioni della Ue.

Isola modello. «È la strada giusta», dice Irene Baule, presidente dell’Associazione contro l’emarginazione sociale (Asce) che ad Alghero ha elaborato il progetto di integrazione dei rom insieme con i servizi sociali del Comune. «È la strada – aggiunge – che l’Asce e tutti i movimenti per la tutela dei diritti umani indicano da sempre. Ad Alghero è stato possibile muoversi in questa direzione per una serie di circostanze favorevoli. Tutte, però, riproducibili altrove, anche dove i campi nomadi sono molto più grandi di quello di Fertilia. Anche a Roma, anche a Milano è possibile, se lo si vuole, fare scelte di coinvolgimento dei rom e delle comunità locali e avviare il processo virtuoso che in Sardegna s’è dimostrato possibile. La nostra esperienza è un modello, una realtà concreta che toglie ogni alibi al mantenimento delle vergognose pratiche di segregazione dei rom nei campi». E come un modello da studiare e da applicare il “caso Alghero” (ce ne sono pochissimi altri in Italia) è stato presentato, lo scorso 15 marzo, al “Roma Sinti Fest”, organizzato dal Comune capitolino e dall’associazione ZaLab. Un’intera giornata dedicata ai rom, ai sinti e alla loro cultura.

Mai più esclusi. Non l’hanno quindi subìta, le famiglie che stavano all’Arenosu, la chiusura del campo. L’hanno voluta. Niente polizia, niente carabinieri, nessuno sgombero coatto. Rom nella lingua italiana si traduce “uomo libero”. I rom di Alghero – dodici nuclei familiari, sessantadue persone in tutto, di cui trenta bambini – hanno liberamente deciso di lasciare il campo per andare a vivere tra i “gagé”, i non rom. Lo hanno fatto quando il sindaco, Mario Bruno, ha trovato a Bruxelles i soldi del fondo comunitario che è stato creato apposta (e quindi vincolato) per finanziare i progetti di inserimento dei nomadi. Chiudere i campi e far vivere i rom come tutti gli altri; fine della segregazione abitativa che fa tutt’uno con l’emarginazione, l'esclusione, il razzismo.

Ecco perché il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, bara quando chiede che i campi nomadi siano chiusi. I primi a volerne il superamento sono proprio i rom, ma in una prospettiva diametralmente opposta a quella del leader leghista: di superamento dei ghetti in un’ottica di accoglienza e di integrazione. Questa è la scelta del sindaco Mario Bruno, in linea con le indicazioni europee. Ora delle tredici famiglie che stavano al campo dell’Arenosu dodici abitano ad Alghero, la tredicesima a Sassari, in via Turritana, nel cuore del vecchio centro storico. Decisivi i finanziamenti europei, ma altrettanto decisivi altri due fattori. Il primo è il ruolo giocato dall’Associazione contro l'emarginazione, che, con il supporto dei Servizi sociali del Comune, ha cercato e trovato, uno per uno, i proprietari delle case da affittare. Il secondo è la funzione di garante che, presso gli algheresi che hanno accettato di locare abitazioni ai rom, si è accollato il Centro di ascolto della Caritas della diocesi di Alghero.

La strada da fare. «Non è stato per niente facile – racconta Irene Baule – Verso i rom c'è molta diffidenza. E anche razzismo; usiamola, la parola. Ma alla fine siamo riusciti a far capire che le paure erano del tutto infondate». Quando s’è saputo che Mario Bruno e Irene Baule avevano trovato casa per tutte le famiglie del campo di Fertilia, le redazioni dei giornali e dei siti web e la segreteria del sindaco sono state subissate di email e di lettere di algheresi che protestavano indignati: «Come, tanti di noi non hanno un alloggio e Mario Bruno, invece di preoccuparsi dei suoi concittadini, trova un tetto ai nomadi?». «C’è gente così: pensano che noi non siamo cittadini come gli altri. Prima vengono i cittadini veri, gli algheresi, e poi noi, gli zingari», commenta Luca Hadzovic, nato nel campo nel 1984, artigiano del rame che lavora nella raccolta di materiali ferrosi e che dall'Arenosu è venuto via con la moglie e tre bambine.

«Ma io – aggiunge Luca Hadzovic – sono cittadino come gli altri, ho gli stessi diritti; non voglio togliere niente a nessuno, e però voglio che niente sia tolto ai rom. Per fortuna, alla fine, quelli che ragionano facendosi condizionare dall’ostilità preconcetta sono una minoranza. Alghero ha risposto in maniera positiva al progetto di integrazione che stiamo sperimentando. Abbiamo fiducia».

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