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sabato 18 gennaio 2014

India: la lettera di Tommaso Bruno "160 in una cella, latrine senz'acqua e cibo schifoso..."

Il Tempo
Nell'inferno delle carceri indiane sopravvivono in condizioni allucinanti e disumane una ventina di italiani finiti dentro dopo indagini alquanto discutibili. Tutti si proclamano innocenti. 
La storia che vi raccontiamo rasenta la follia. Tommaso Bruno è un uomo che da 1.460 giorni ha deciso di non tagliare più la barba "perché tutte le mattine, quando mi guardo allo specchio, mi rendo "fisicamente" conto del tempo che passa lento e inesorabile". Scrive così dal carcere indiano dov'è rinchiuso da quasi quattro anni e dove ha spento, lo scorso 11 gennaio, le sue 31 candeline. Le sue lettere dal carcere indiano fanno rabbrividire, anche perché un simile trattamento potrebbe essere riservato anche ai due marò. "Mi trovo nella baracca n.8. É una struttura lunga una 60 metri, larga 6 e alta circa 3, al cui interno siamo in 160.

L'acqua viene erogata in modo tale che ti puoi lavare 2 volte al giorno e poi riempirti le bottiglie d'acqua poiché quella del pozzo è imbevibile. Nelle latrine non c'è acqua corrente quindi quando devi usarle, devi recuperare un contenitore di plastica, riempirlo d'acqua e poi addentrarti in quel fetore e pulirti con le mani, perché per gli indiani la "carta igienica" è anti-igienica ed inoltre potrebbe intasare i tubi di scarico. Per lavarti - continua Tommaso - invece ti armi di un secchio di plastica e combatti per poterlo piazzare sotto un rubinetto e quindi lavarti con l'aiuto di una tazza. Il cibo arriva in due grossi pentoloni e ti devi mettere in fila con il tuo vassoio di alluminio per recuperare la tua razione completata da un pugno di riso".

Tomaso Bruno è stato condannato all'ergastolo insieme all'amica Elisabetta con l'accusa di aver ucciso Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. Vittime, anche loro, di palesi e pacchiani errori commessi dalla giustizia indiana che però non li ha sottratti alla pena del carcere a vita. Si aggrappano all'ultima speranza della Corte Suprema che da oltre un anno deve ancora prendere in esame il loro caso. Nel frattempo continuano a vivere come bestie. "In totale siamo circa tremila persone divise in 16 baracconi (barak) ognuno dei quali ospita circa da 100 a 150 detenuti.

All'interno della baracca siamo disposti in due file e ciascuno ha a disposizione un metro per due per il suo giaciglio fatto di tre o quattro coperte sovrapposte più un telo come lenzuolo. Nel muro vari ganci di legno per appendere le tue cose. Lungo entrambi i muri ci sono finestre di circa un metro per due e al soffitto ventole ogni circa tre metri. Le ventole sono la cosa più importante visto il caldo massacrante da aprile a metà ottobre (picchi di 50° e tasso di umidità al 70%), purtroppo l'elettricità va e viene e nell'arco di una giornata è erogata al massimo per 14 / 16 ore, nelle restanti 10 ti fai aria con dei particolari ventagli chiamati "panci" ricavati da foglie di palma".

Elisabetta e Tomaso finiscono in carcere nel febbraio 2010. A nulla sono valse le contestazioni degli amici, persino della madre di Francesco, la vittima, che ha ammesso che il figlio aveva problemi di salute. Un lungo calvario fatto di dolore, disperazione, angoscia e cifre stratosferiche: 400 mila euro di spese legali, oltre 150 udienze e innumerevoli rinvii. La forza di una famiglia alle spalle e quella di mamma Marina Maurizio che non lo ha mai abbandonato. Ma oggi lei, affida a il Tempo il suo sconforto e la sua amarezza per uno Stato, quello Italiano, che forse avrebbe potuto fare di più.

"Mi sono sentita abbandonata. Si doveva intervenire nelle prime ore dall'accaduto, la nostra diplomazia, avrebbe dovuto sin dall'inizio far sentire la propria presenza. E invece quello che ricordo è stato un fax da parte dell'Ambasciata in cui mi si chiedeva di nominare un legale. Pensi che ad avvisare la famiglia di Francesco Montis furono proprio Tomaso ed Elisabetta. I poliziotti con l'inganno chiesero ai ragazzi i passaporti, con la scusa di prendere dei dati, invece furono sequestrati". Una trappola, come per i marò convinti ad entrare in porto per riconoscere i presunti pirati.

E lo Stato Italiano? La Farnesina? "Non so dove fossero. Ho affrontato il primo grado, la Trial Court, senza che mi venisse fornito aiuto e assistenza. Dal secondo grado, per fortuna, poi abbiamo ottenuto che il processo si svolgesse in inglese. Tutto questo mi è costato 400 mila euro di parcelle legali, senza contare i voli aerei e i soggiorni in India, dove andiamo ogni tre mesi e ci tratteniamo per una media di 3 settimane. Da quattro anni faccio questa vita. Ora vorrei essere aiutata, anche economicamente". Dopo i due gradi di giudizio, avete fatto istanza alla Corte Suprema che ancora deve prendere in esame il vostro caso. "Il 3 febbraio 2013 è stato accolto il ricorso, fissando per il 3 settembre udienza dello stesso anno; il pm, quel giorno, non si presentò. Da quel momento in avanti, il nostro caso portato con regolarità tutti i martedì ma ci sono puntuali rinvii".

di Francesca Pizzolante

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