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mercoledì 22 maggio 2013

Le carceri in Italia hanno di fatto preso il posto dei manicomi degli anni 70

L'Opinione
Gran parte del disagio mentale, in una realtà in cui sia il clima che la reazione sociale agli eventi psico-patologici degli individui incidono pesantemente sull’evoluzione dei sintomi e nella totale assenza di strutture di effettiva assistenza, approda proprio entro le mura carcerarie.

Che, a loro volta, come i vecchi manicomi, sono fonte di peggioramento psichiatrico. 

Si tratta di una affermazione intorno a cui ha ruotato il convegno “Psichiatria e Giustizia” promosso qualche giorno fa a Roma dalla Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo, dalla associazione “Proposta per l’Italia” e dal quotidiano “L’opinione” e che ha rinnovato una discussione rimasta sempre aperta da quando la legge Basaglia stabilì la chiusura dei manicomi. 

La sfaccettata realtà sociale italiana, sempre più segnata, dopo la chiusura dei manicomi, da un’ inarrestabile e sottovalutata crescita degli individui affetti da gravi disturbi mentali o lasciati alla strada o abbandonati all’iniziativa individuale delle cure familiari, impone una improcrastinabile e sempre troppo tardiva riflessione sul “Che fare”. Partendo dalla presa d’atto, onesta, delle implicazioni che la mancanza di misure volte alla gestione del ‘disagio liberato’ ha provocato in seguito alla chiusura dei manicomi. 

Quello che si impone è un ulteriore atto di coraggio legislativo che, evitando i medesimi errori seguiti alla legge Basaglia ed oltre ad alleviare le famiglie dal peso esclusivo della gestione dei malati, miri a moltiplicare le strutture alternative alle strutture carcerarie cui destinare, invece, i reati di massima gravità. Perché? All’approvazione della legge 180 non è seguita una organica risoluzione, soprattutto nei centri urbani ad alta densità di popolazione, del problema del collocamento di chi è colpito da disagio psichico che prima stava nei manicomi. 

Di fatto la Basaglia, che ha rappresentato una operazione più che legittima di surrealismo psichiatrico, animata dalle migliori intenzioni, non ha infatti previsto modalità operative per una corretta presa in carico dei malati, tranne a Trieste, dove il rapporto tra operatori e individui affetti da disagio mentale è pari più o meno ad 1 a 1. Cioè un rapporto insostenibile per qualsiasi altra struttura pubblica. 

La situazione ormai consolidatasi è che questo “carico”, per quanto amorevole possa essere, pesa esclusivamente sulle famiglie nella più totale assenza dello Stato che opera nel settore con protocolli schematici e disumani. Uno Stato che, ahimè, interviene soltanto nel momento in cui i congiunti del malato, lasciati soli a gestire sacche di malessere il cui esito spessissimo è un crescendo di violenza poiché i malati spesso arrivano a compiere atti estremi contro se stessi o contro i familiari stessi, subiscono passivamente e drammaticamente le conseguenze del disagio mentale dei propri assistiti. 

Senza un controllo, un monitoraggio da parte di strutture sanitarie capaci di erogare un servizio adeguato in collaborazione e coordinamento con la famiglia, la psicopatologia diventa una delle realtà più logoranti per chi deve assistere il familiare affetto da disagio psichico, soprattutto perché nel quadro psicopatologico rientra sempre il rifiuto tassativo di curarsi e la casistica di famiglie costrette ad arrivare alla denuncia del malato, a seguito di episodi di violenza, è in devastante aumento. 

L’esito della 180 è quindi paradossalmente, di vedere approdare il disagio mentale proprio in carcere che tutto è fuorché un luogo di cura né di rieducazione. Questo quadro, insomma, è il prezzo pagato da un sistema psichiatrico arretrato all’ideologia che negli anni ha impedito di mettere mano ad una modifica della 180, facendo cadere entrambe le proposte degli ex deputati Alessandro Meluzzi e Carlo Ciccioli. Chiunque abbia tentato di intervenire in materia di assistenza psichiatrica è stato tacciato di voler riaprire i manicomi mentre si tratterebbe di scardinare un sistema ingessato e costruire una “trama terapeutica” che renda possibile umanizzare il mondo del disagio mentale che troppo spesso approda nella galera. E qui il malato muore (parlano le percentuali!) anche perché non regge al cospetto della delinquenza reale. La sfida, dunque, è quella di rilanciare il tema con finalità ancor più rivoluzionarie di quelle previste dalla legge Basaglia: ripensare il sistema carcerario prevedendo strutture più adeguate alla cura dei malati che stanno marcendo in carcere e dal quale, se usciranno mai vivi, ne usciranno ancor più mentalmente dissestati di prima. Oltretutto, particolare non trascurabile, curare un malato attraverso una rete di monitoraggio domiciliare, costerebbe molto meno del suo mantenimento in prigione (attualmente il costo di un detenuto supera i 400 euro al giorno!) Ridefinire questo sistema non-sanitario che sempre più spesso conduce il malato mentale dietro le sbarre è, dunque, come hanno detto congiuntamente Alessandro Meluzzi, Alessandro Domenico De Rossi, Carlo Ciccioli ed Arturo Diaconale, un atto doppiamente rivoluzionario e titanico poiché dietro alle resistenze “ideologiche” che ad esso fanno fuoco di sbarramento vi sono ben altre resistenze legate alle rendite di posizioni e di gestione di potere sanitario. Quel che verrebbe aggredito è ben altro morbo, consolidatosi in cinquant’anni di Welfare, prodotto dall’inamovibilità garantita da un elefantiaco ed ingessato sistema burocratico che, come ha ben sottolineato Alessandro Meluzzi, infonde in chi ne fa parte la percezione dell’inamovibilità, ne stravolge, con ineliminabile meccanismo dell’anima, il funzionamento cerebrale e lo blocca nelle gabbie dell’improduttività dove non cresce alcun meccanismo che premi l’attività e l’iniziativa. Insomma scardinare le sicurezze “dovute” del Welfare, attraverso un progressivo snellimento dei dipendenti pubblici che garantisca un processo di ri-efficienza del sistema attraverso la sussidiarietà, l’unica strada per garantire il monitoraggio della casistica presente sul territorio e l’assistenza alle famiglie.
di Barbara Alessandrini

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